1. Abbazia di Piona
2. Abbazia di San Pietro al Monte
3. Monastero di Astino
4. Certosa di Pavia
5. Infine

Abbazie in Lombardia: come promesso la seconda parte del viaggio alla scoperta di angoli di spiritualità, ma questa volta allontanandoci da Milano, verso zone raggiungibili comunque in breve tempo (qui la prima parte).


Abbazia di Piona

Siamo sul lago di Como, ma sul ramo di Lecco, per la precisione sulla penisola di Olgiasca, di fronte a Gravedona, sulla punta estrema di questa parte di lago. Qui, ai piedi della montagna, si staglia l’abbazia di Piona, appartenente all’ordine cluniacense. Il paesaggio è suggestivo, incorniciato com’è dai monti e con lo scorcio del lago all’orizzonte: il silenzio ci avvolge ancor prima di varcare la soglia dell’abbazia, catapultandoci nella sua atmosfera di sacralità.
L’abbazia è stata consacrata nel 1138 e intitolata alla Vergine ma la prima menzione del monastero cluniacense risale al 1169 con l’intitolazione a San Nicolò. Tuttavia, ancor prima dell’insediamento benedettino, nel VII secolo d.C. in questo stesso territorio esisteva una comunità monastica, probabilmente di impostazione eremitica. Infatti nel chiostro dell’attuale abbazia si conserva il Cippo di Agrippino, il vescovo di Como che nel 617 vi fece erigere un oratorio a Santa Giustina martire. Inoltre resti di una porzione di abside dell’originario oratorio sono visibili in posizione retrostante rispetto all’attuale chiesa di San Nicola.
Come abbiamo già avuto modo di vedere nel nostro precedente approfondimento, tipicamente quasi tutte le basiliche sono state rimaneggiate nel corso dei secoli, con interventi di varia natura a carico della struttura originaria. Ciò è accaduto anche nel caso dell’abbazia di Piona. Nel 1154 la chiesa viene ampliata e dedicata al nuovo patrono San Nicolao mentre nel 1252 viene realizzata l’opera di maggior pregio artistico di questa abbazia: il chiostro che presenta uno stile di passaggio tra il romanico e il gotico. Come ogni chiostro, anche quello dell’abbazia di Piona ha struttura quadrangolare con al centro una fonte e un albero raffiguranti la fonte delle delizie e l’albero della vita del paradiso terrestre. Il chiostro è il punto di riferimento di ogni complesso monastico rappresentando il luogo del silenzio inteso come unico strumento per realizzare appieno possibile il dialogo con Dio.

Le differenze delle epoche in cui sono stati effettuati i lavori di ampliamento sono visibili soprattutto nella parte inferiore e in quella superiore del perimetro esterno dell’abside che presentano una discontinuità nella tecnica di realizzazione della muratura. La medesima discontinuità nell’uso dei materiali è visibile anche nell’interno della chiesa.
Nel corso del Duecento il monastero visse un periodo di prosperità, al punto da essere uno dei dodici più ricchi di tutta la diocesi. Tuttavia, tale fortuna era destinata a mutare e a trasformarsi in un cammino di lenta decadenza: nel 1798, per ordine del Direttorio della Repubblica Cisalpina, tutti i beni dell’abbazia vengono incamerati dal dipartimento dell’Adda e messi all’asta. Solo un secolo dopo, nel 1879, inizia il restauro della chiesa con aiuti governativi e sovvenzioni del comune e della provincia di Como. Ciononostante, una nuova comunità di monaci cistercensi riuscì a stabilirsi nuovamente presso il monastero solo nel 1938, in seguito al verificarsi di una tragedia. L’edificio fu infatti acquistato nel 1935 da un imprenditore, Pietro Rocca, che decise di donarlo tre anni dopo alla Congregazione dei Cistercensi di Frosinone come gesto di purificazione e perdono in seguito alla morte del fratello in un attentato in Etiopia.
Come in tutte le comunità monastiche, anche qui le giornate sono scandite da attività di preghiera e di lavoro: il lavoro delle officine dell’abbazia di Piona dà luogo a erbe medicinali, creme cosmetiche, miele e liquori acquistabili in loco (e su siti specializzati), come accade anche per i prodotti di altri monasteri (vedi Monastero di Cascinazza).

Sito ufficiale Abbazia di Piona


Abbazia di San Pietro al Monte

Rimaniamo sulla questa lecchese del lago di Como per recarci all’abbazia di San Pietro al Monte. Il cammino per giungere presso questo complesso monastico, situato a 662 metri sul livello del mare, si snoda lungo la montagna in un sentiero che nell’ultima parte sale a gradoni e è percorribile solo a piedi: una camminata che prepara all’immersione nella spiritualità che regna in questo luogo.
L’insediamento monastico in questi luoghi è di antichissima origine: infatti il più arcaico di tali insediamenti è sorto alla fine del regno dei Longobardi (774 d. C.) i quali, convertitesi al cristianesimo, furono fautori della costruzione di numerosi monasteri in terra italica. Proprio dietro tale impulso sorse qui, nella seconda metà dell’VIII secolo, un primo piccolo monastero dedicato a San Pietro e Paolo che venne a più riprese ampliato tra il IX e l’XI secolo fino ad assumere la definitiva e maestosa architettura romanica che si manifesta al nostro sguardo. Purtroppo le guerre hanno avuto ripercussioni anche in questi luoghi e dopo la sconfitta a Legnano del Barbarossa, di cui l’abate era fedele vassallo, i Comuni guidati dall’arcivescovo di Milano hanno distrutto per puerile rivalsa tutte le parti d’abitazione del monastero.
Ad accoglierci presso l’abbazia non troviamo monaci ma volontari dell’Associazione Amici di San Pietro, nata nel 1975 su impulso di Don Vincenzo Gatti, membro della comunità religiosa della famiglia Beato Angelico, che ha coordinato per oltre cinquant’anni i restauri del complesso abbaziale.

Il complesso monastico è composto da due edifici separati: l’oratorio di San Benedetto, il primo a presentarsi allo sguardo di chi giunge, con struttura a pianta centrale e a distanza di pochi metri il complesso principale, la chiesa vera e propria, cui si accede tramite una scalinata monumentale posta di sghembo rispetto all’asse principale. L’oratorio e la basilica si differenziano, oltre all’aspetto esterno, anche per ciò che riserva il loro interno: a fronte di un oratorio spoglio, con un piccolo altare, l’interno della basilica si presenta invece riccamente affrescato con un complesso programma iconografico.
Tra le opere artistiche all’interno della basilica, il tabernacolo occupa una posizione di rilievo innalzandosi al centro del presbiterio e rialzato rispetto alla navata da tre gradini di granito. CI troviamo di fronte a un monumento davvero prezioso: basti pensare che esiste solo un altro esempio simile in S. Ambrogio a Milano da cui si differenzia per materiali meno ricchi, a fronte di una struttura più snella. Sotto l ’abside orientale della chiesa si apre la cripta, che costituisce la parte più antica della chiesa ed è accessibile tramite una apposita scala. Qui gli scavi hanno portato alla luce reperti importanti per la comprensione del passato di questa comunità: inoltre sono stati ritrovati resti ossei di individui, la cui datazione permette di ipotizzare che una chiesa precedente potesse qui sorgere in età carolingia, tra il VII e il IX sec.

Sito Associazione Amici di San Pietro


Monastero di Astino

Cambiamo direttrice, recandoci alla volta di Bergamo, più precisamente nella valle di Astino, nel Parco Regionale dei Colli di Bergamo, una cinquantina di km dalla nostra sede di Gustavo Modena 4. Un altro paesaggio suggestivo, anche se chiaramente differente rispetto a quello incontrato nelle due tappe precedenti. Qui, immerso tra vigne e campi coltivati, si apre il monastero di Astino, racchiuso in un’oasi di pace e raccoglimento.
Astino venne edificato nel 1070, ampliato tra i secoli XV e XVI e soppresso nel 1797 da parte della Municipalità di Bergamo. Il complesso divenne sussidiario dell’Ospedale Maggiore, dal 1832 al 1892, e trasformato in manicomio. Ma già prima della definitiva chiusura la peste del 1630 aveva decimato la comunità monastica: ancora dopo 20 anni risiedevano al Santo Sepolcro soltanto undici monaci, l’abate e un converso (i conversi erano laici che pur vestendo abito da frate non hanno formulato i voti religiosi e sono addetto ai lavori più umili). Nel complesso monastico trova posto la chiesa del Santo Sepolcro consacrata nel novembre del 1117 e che deve il suo appellativo al fervore religioso suscitato dalla prima crociata (1096-1099) alla quale parteciparono numerosi bergamaschi.
La storia di questo complesso monastico rispecchia quella della maggior parte dei suoi fratelli sparsi nel territorio: la fondazione, gli ampliamenti concomitanti a periodi di sviluppo e un lento e progressivo degrado sfociante spesso nel totale abbandono. Solo con l’acquisto da parte della Fondazione MIA di Bergamo il monastero è stato recuperato e riaperto al pubblico nel 2015.

Purtroppo se da una parte le opere di restauro hanno riportato agli antichi fasti il complesso monastico dall’altra hanno comportato la perdita della sua connotazione prettamente religiosa diventando sede di un ristorante, modificandone così parzialmente l’originaria natura.

Fondazione Mia


Certosa di Pavia

Finiamo questo nostro viaggio con lei, la famosa certosa di Pavia consorella della più celebre certosa di Parma.
Il nome completo del complesso è Gratiarum Carthusia, che spiega la sigla Gra-Car che si ritrova in vari ambienti del monastero e consta del vestibolo, della chiesa di Santa Maria delle Grazie, il refettorio, la biblioteca, la sacrestia e i due chiostri.
La posa della prima pietra avvenne per volontà di Gian Galeazzo Visconti 1396, in pieno periodo tardogotico ma la sua costruzione richiese quasi un secolo: infatti fu solo nella metà del 400 che venne completata nella sua ricca veste decorativa rinascimentale con la solenne consacrazione avvenuta il 3 maggio 1497. A costruzione ultimata, almeno per quanto riguarda la struttura portante, nel 1473 vennero iniziati gli imponenti lavori della decorazione marmorea della facciata, proseguita, come vedremo, a intermittenza per quasi un secolo, attraverso un numero imprecisabile di cambiamenti nei progetti.
Anche la storia del complesso della Certosa di Pavia ha visto il susseguirsi di periodi di fortuna e decadenza, con un rimpallo di proprietà tra ordini diversi. In origine erano i monaci certosini i depositari del complesso, cui succedettero i monaci cistercensi nel 1784, due anni dopo l’espulsione dei certosini a opera dall’imperatore Giuseppe II. Nel 1798 subentrarono i monaci carmelitani che dovettero subire il passaggio delle truppe napoleoniche. Vi fu poi un breve periodo di ritorno dei certosini fino a quando nel 1866 il monastero fu dichiarato monumento nazionale italiano ed i beni ecclesiastici in esso contenuto diventarono proprietà del Regno d’Italia allo scopo di risanare il deficit pubblico. Dal 10 ottobre 1968 a tutt’oggi abitano presso il monumento i monaci cistercensi che, oltre a svolgervi la loro vita monastica, si occupano anche delle visite guidate alla chiesa, ai chiostri del convento ed alla vendita di articoli sacri e di vari prodotti tipici.

La certosa di Pavia non è soltanto un monumento di straordinaria bellezza ma anche un simbolo nella difesa del patrimonio artistico e storico italiano: il passaggio allo Stato italiano e l’affidamento alle cure del Ministero della Pubblica Istruzione ha infatti reso possibili importanti interventi di restauro e manutenzione, questa volta nel rispetto della natura originaria del complesso. In questo modo è stato risparmiato alla Certosa il destino di abbandono e degrado cui sono invece state soggette troppe delle sue consorelle presenti sulla nostra penisola.
Già solo avvicinarsi alla Certosa costituisce un’esperienza di rapimento con il manifestarsi al nostro sguardo dell’imponenza della sua facciata screziata di rosa e verde antico, splendidamente decorata. D’altra parte nelle intenzioni di Gian Galeazzo la Certosa avrebbe dovuto celebrare la grandezza del ducato visconteo che proprio in quegli anni aveva raggiunto il vertice dell’espansione territoriale e dell’incidenza politica nel quadro delle potenze europee. E non è un caso che fu deciso di edificare il complesso in prossimità del vasto parco che si apriva a nord del castello ducale, con cui era collegato da numerosi percorsi interni ed esterni, risultando così pienamente integrato alla residenza signorile.

Per accedere al complesso certosino bisogna oltrepassare il fossato e attraversare un portale che dà accesso a quello che, con un nome forse improprio, è il vestibolo. Nome improprio perché quando pensiamo a un vestibolo di certo non abbiamo in mente l’ambiente che ci si presenta qui: un portale marmoreo rinascimentale, ricchi affreschi e una volta a padiglione impreziosita da decorazioni pittoriche.
A questo punto possiamo entrare nella chiesa vera e propria, Santa Maria delle Grazie. Prendiamoci tempo per ammirare le straordinarie opere d’arte che qui trovano dimora e perdiamoci nella contemplazione delle decorazioni pittoriche, del monumento funebre di Ludovico il Moro e Beatrice d’Este di Cristoforo Solari (1497), dei candelabri bronzei di Annibale Fontana (1580) e del trittico in osso e avorio di Baldassarre degli Embriachi (inizio XV sec.). Ma ogni angolo, ogni spazio all’interno della chiesa è un tributo alla bellezza e alla gloria del Signore: ovunque il nostro sguardo possa posarsi, incontrerà dettagli che lasciano incantati. Sarebbe impossibile enumerare tutte le opere che impreziosiscono la basilica: per questo abbiamo detto che sia necessario prendersi del tempo per poter assaporare tutto quello che il genio umano ha riposto tra queste navate.
Per chi abbia letto I pilastri della terra di Ken Follett, la costruzione della certosa di Pavia rispecchia quella della cattedrale di Kingsbridge: fu infatti un processo che, tra ampliamenti e abbellimenti, attraversò quasi 4 secoli, incrociando gli avvenimenti storici di quel lungo periodo storico. Una storia che è inoltre strettamente intrecciata con quella del Duomo di Milano dal momento che molte delle maestranze impegnate nella Fabbrica del Duomo prestarono la loro opera anche per la costruzione della Certosa di Pavia. Come è facile immaginare, tale processo non fu lineare ma segnato da ripetute interruzioni e riprese, rallentamenti e accelerazioni: tutto ciò si è riflesso inevitabilmente sull’architettura della Certosa in cui sono sedimentate le diverse tendenze artistiche delle varie epoche.
La chiesa di Santa Maria delle Grazie fu progettata di dimensioni superiori a quelle che osate fino a quel momento e con una struttura a tre navate che mai era stata utilizzata in precedenza dall’Ordine Certosino.
Seguendo l’ordine cronologico, consapevoli della riduzione che inevitabilmente consegue a tale schematismo, si possono rintracciare i diversi interventi sugli elementi decorativi della chiesa.

Alla fine del 400 risultano terminati il programma decorativo ad affresco, le vetrate istoriate e il coro a intarsio ligneo. Fu in questo periodo, con l’avvento al potere di Francesco Sforza, che il cantiere venne affidato dapprima a Giovanni Solari e poi a suo figlio Guiniforte, entrambi provenienti dalla Fabbrica del Duomo di Milano. Agli inizi del ‘500 fu aggiunto il portale a opera di Benedetto Briosco mentre a metà dello stesso secolo si procedette a modificare l’altare maggiore, aggiungendovi elaborati commessi marmorei (il commesso marmoreo è una tecnica di lavorazione di marmi e pietre dure) e di pregiati bronzi. Inoltre nelle ultime decadi del secolo, sotto la supervisione dell’architetto e ingegnere del Duomo Martino Bassi, vennero incrementati gli arredi della chiesa, ristrutturati gli spazi conventuali e predisposta un’ampia sagrestia. Nel 600 fu la volta delle cappelle, ridecorate e riallestite nell’aspetto che osserviamo oggi, e del coro in cui si procedette all’esecuzione di un ciclo affrescato.
Ma ora è tempo di uscire dalla Chiesa per goderci l’aria fresca dei due chiostri.

Il chiostro grande è una visione che toglie letteralmente il respiro con i suoi oltre cento metri di larghezza e oltre centoventi di lunghezza: qui si aprivano le celle in cui risiedevano i monaci e proprio per questo motivo fu realizzato ancor prima della chiesa, anche se i lavori furono portati definitivamente a termine solo nel 1480. Anche qui, come abbiamo visto per la chiesa, gli elementi architettonici e decorativi sono opera di diversi artisti dell’epoca, rispecchiando così vari gusti e stili: abbiamo infatti all’opera Vincenzo Foppa, Francesco Solari, Rinaldo De Stauris, Cristoforo Mantegazza e l’Amadeo.
Il chiostro piccolo ospitava invece gli edifici connessi alla vita della comunità monastica (dal refettorio, al capitolo, all’infermeria).
Giunti a questo punto, noi dobbiamo necessariamente fermarci alla sagrestia vecchia, dove è ospitato il capolavoro di Baldassarre degli Embriachi: un trittico intagliato in legni pregiati, denti di ippopotami, osso tinto a tartaruga. Lasciamo invece a voi la scoperta degli ambienti che rimangono, prima fra tutte la biblioteca.

Sito Ufficiale Certosa di Pavia


Infine

Siamo giunti alla fine di questo viaggio tra alcuni dei monasteri nei dintorni di Milano, un viaggio immersi nella spiritualità, in atmosfere di altri tempi, avvolti dal fascino e anche dal mistero che ancora circonda queste comunità.